« La mia vita è insopportabile, non ce la faccio più. » Sara Calleja, un suicidio di genere

Uno degli acquerelli dell’artista di León Sara Calleja, vittima di violenza di genere.

sara calleja

« La mia vita è insopportabile, non ce la faccio più. »

link all’articolo su LaNuevaCronica.com

Non bastarono 19 denunce, 3 giudizi, 2 ordini restrittivi di allontanamento né 9 mesi di carcere per sbarazzarsi del suo ex. Dopo 2 anni di maltrattamenti Sara Calleja si è tolta la vita.

“La paurosa”, una delle opere di Sara Calleja. La sua morte non farà parte delle statistiche di violenza di genere nel 2015. Ufficialmente questa donna non è una delle 27 che ha perso la vita per mano del partner o dell’ex partner in Spagna quest’anno fino ad oggi, una carneficina che dal 2012 solo a León  ha lasciato 5 vittime. Sara, leonese di 51 anni, non è morta per mano del suo ex.  E questo nonostante lo abbia denunciato 19 volte, ci furono tre giudizi e la Corte abbia imposto due ordini restrittivi di allontanamento e di comunicazione. E che lui, il belga Christian C., sia stato condannato ed imprigionato per nove mesi nel carcere di Mansilla de las Mulas per il reato di minacce in ambito famigliare, anche se il procuratore di violenza di genere di León, dove il reato è stato commesso, aveva chiesto cinque anni di carcere.

« La mia vita era nelle sue mani, signora giudice, e sembrava che ogni volta che denunciavo, davo noia », ha scritto Sara prima di morire. Potremmo chiamare quello di Sara suicidio di genere. Poiché l’11 luglio non ce l’ha fatta più e si è tolta la vita ad Ibiza, dove si era rifugiata per paura di ritrovare il suo aguzzino, che quattro giorni dopo avrebbe scontato la sua pena e sarebbe stato rilasciato.

« La trovava sempre », dichiara John, un amico di Sara che ancora fa fatica a credere a questa tragedia che ha lasciato una famiglia desolata. La madre di Sara, i suoi due figli (Elio e Andrea, da un precedente matrimonio), le sue sorelle, i suoi amici.

Tutto finito in questo modo atroce. John è incapace di capire perché nulla sia stato fatto, nonostante il grido disperato di questa donna anche espresso attraverso i suoi pennelli e la sua arte, nonostante già nel mese di aprile aveva cercato di porre fine alla sua tortura con una overdose di pillole. « Con la sfortuna che il mio corpo sopportò quello che non avrebbe dovuto » scriveva Sara poche ore prima di mettere fine al suo infinito dolore nella straziante lettera alla giudice di violenza di genere di León.

Non capisco come ho potuto sopportare tutto questo e tutto quello che mi è accaduto. A dire il vero, non lo sopporto e per questo mi ritiro.  La terribile storia della fine di Sara Calleja (Ponferrada 1963 – Ibiza, 2015) è stata raccontata lunedì dal quotidiano El Mundo. Sulle reti sociali si sono scatenate le reazioni per l’incomprensibile inazione della giustizia, nonostante la donna si fosse stancata di chiedere aiuto. « Ci dicono tanto di denunciare i maltrattamenti, e nessuno ha risposto a 19 denunce?» Twittera una ragazza. « Aveva già scontato la sua pena, non dimentichiamolo », ha scritto un altro.

« Per diverse circostanze Sara non ha mai avuto una vita facile, anche prima di incontrare l’uomo », dice il suo amico John, disarmato per la sua assenza. Il suo calvario era iniziato cinque anni fa, quando dopo aver perso il posto di lavoro è riapparsa nella sua vita una vecchia conoscenza belga che le prometteva una vita più confortevole nel suo Paese, dove Sarah si era illusa di poter trovare una vita migliore.

La folle gelosia di lui e i primi maltrattamenti trasformarono l’atmosfera idilliaca della vita che lei desiderava in un incubo che continuava a peggiorare. Sara era piena di paura, si isolò dalla sua famiglia. Non vedeva più nessuno e mandò giù troppo fino a quando ha sporto la prima denuncia.

« Volevo solo non vederlo più »

Alla fine del 2013, Sara ha detto basta e ha messo fine alla relazione, ma le molestie sono diventate ancora più insopportabili. « Voleva non vederlo più ma lo incontrava sempre », dice John. L’aggressore creava  falsi profili in rete per rintracciarla, inviava centinaia di messaggi a lei ed alla sua famiglia, e si è persino trasferito a León, dove la denunciò all’INEM per percezione indebita di disoccupazione, cosa che le è costata una multa di circa 20.000 euro. Affogata dai debiti, Sara ha dovuto separarsi dalla casa che aveva comprato per i suoi figli. « Quest’uomo ci ha gradualmente distrutto la vita » ha raccontato il figlio più piccolo in un’intervista, « è stato solo molestie e demolizione ».

« Sono molto stanca e ho bisogno di riposare; la mia vita è insopportabile” ha scritto alla giudice. “La mia vita era nelle sue mani ma sembrava che ogni volta che denunciavo davo noia.” “Molte donne ritirano le loro denunce perché è un’agonia affrontare un processo dal quale non si esce mai intere.”, ha asserito Sara, che riconosceva di non avere più forze. “Io ora non ne posso più. La mia vita non ha più luce né speranza. Christian mi ha rubato tutto. Ha vinto lui.”

Qui l’intera lettera che scrisse al giudice Sara Calleja GBV de Leon, pubblicata Lunedi da El Mundo.

Traduzione Resilienzainesilio

Figlicidi per colpire le donne

Un articolo a riguardo su El Mundo:

http://www.elmundo.es/espana/2015/08/02/55bd3087e2704eae318b4597.html

Spagna, 2/8/2015, di Rafael Alvarez

« 26 niños asesinados por su padre durante el régimen de visitas »

Dall’articolo:

Negli ultimi dieci anni, il numero di bambini uccisi dalla violenza di genere sale a 44

26 sono i bambini uccisi dal padre durante il “diritto di visita”.

Si tratta di bambini uccisi per danneggiare ulteriormente le donne, la metà di tutti i bambini morti usati come vittime strumentali una violenza sessista e pianificata.

« La chiamiamo violenza vicaria. Si tratta di una violenza secondaria rivolta alla vittima principale, che è la donna. Si vuole danneggiare la donna e lo si fa attraverso terzi, attraverso una terza persona. Il machismo sa che uccidere i figli è assicurarsi che la donna non si potrà più riprendere. E’ il male assoluto. » Lo sostiene la psicologa clinica Sonia Vaccaro, specializzata in vittimologia.

« La chiave è quella di dominare le donne. La danneggiano per dominarla. I bambini sono strumenti per continuare a esercitare il controllo sulle donne. » Ribadisce il Professore di Medicina Legale presso l’Università di Granada Miguel Lorente, ex delegato del governo contro la Violenza di Genere.

Gli esperti concordano sull’idea di bambini come una scusa per un altro scopo, come un canale per raggiungere un’altra vittima. Sonia Vaccaro, operante in casi giudiziari di violenza contro le donne e in valutazioni di casi di donne e minori vittime di maltrattamenti, dice che gli uomini che uccidono i loro figli « non sono padri. » « Se riconoscessero essi come figli, non potrebbero farlo, non potrebbero ucciderli. I bambini sono strumenti, strumenti per colpire chi ha danneggiato la loro virilità lasciandoli, recidendo il rapporto, mettendoli in questione. E’ il machismo ferito, il -ti colpisco dove ti fa più male-. » 

Nella maggior parte dei casi analizzati negli ultimi dieci anni la violenza mortale sui bambini è stata il finale di una precedente violenza sulla madre, di una serie di episodi che trascinavano storie di abuso machista. Questo fatto non si evidenza al contrario.

Riguardo ad un recente caso di figlicidio in Spagna:

Ieri Oubuel si è recato in tribunale tra insulti e rimproveri di decine di vicini di casa. « Il problema non è la critica di dopo, ma il silenzio di prima », ha scritto nel suo Twitter Miguel Lorente.

Segue traduzione dell’articolo completo.

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Il semaforo rosso (racconto)

Se le infrazioni al codice della strada fossero trattate come la violenza di genere…

– IL SEMAFORO ROSSO – 

SEMAFORO ROSSO

– La pattuglia – 

A: agente pattuglia

G: « Guido » (il conducente)

A: « Senta, noi siamo qui, ci hanno chiamato, siamo usciti ancora… ma non è la prima volta che passa col rosso. E’ anche vicino ad una scuola. Deve darsi una regolata! »

G: « Agente, senta, l’ho già detto: questo semaforo è lunghissimo. Io devo andare al lavoro al mattino, non si può… »

A: « Ma non può fare un’altra strada? »

G: « No, devo passare per forza di qua. Allora, non possono fare un’altra strada quelli che vi chiamano per segnalarmi? Scusi eh? »

A: « Certo, a loro l’abbiamo già detto. Qualcuno ha anche cambiato di scuola al figlio perché la mattina ogni tanto lei sfreccia davanti non fermandosi al semaforo. »

G: « Sì, va beh, quelli poi… adesso non esageriamo! Che stiano attenti quando attraversano. Non è che lo faccio tutti i giorni, mi capita ogni tanto, quando sono di fretta. »

A: « Insomma, io la capisco, la capiamo… Ti capiamo, và, diamoci del tu… ormai con tutte le volte che ci hai fatto chiamare! Come ti chiami? »

G: « Guido. »

A: « Ah sì, è vero. Ascolta Guido, non si può, non si può! Tra l’altro è un reato, te l’abbiamo già detto. »

G: « Ma sì, me l’avete già detto… ma non ho mica ucciso nessuno! »

A: « Non ancora ma il mese scorso hai fatto cadere l’anziana che poi è stata portata al pronto soccorso. »

G: « Massì, esagerata… è caduta ma l’ho solo toccata dentro. »

A: « Comunque abbiamo il referto. Guarda che abbiamo mandato già tutto in procura, il magistrato può decidere che ti venga revocata la patente o addirittura l’arresto! Tu non la vuoi capire ma rischi. »

G: « Ma che senso ha arrestarmi? Poi vado dentro coi criminali, quelli veri… e esco peggio di prima. In fondo cosa ho fatto? »

A: « Senti, guarda, noi oggi proviamo anche a fare un rinvio anche ai servizi stradali. Ti chiameranno. Magari loro ti possono aiutare a capire che col rosso non si può passare, che le persone prendono paura, che investi la gente, che non si sa mai cosa può succedere. Ai servizi stradali ci sono specialisti: stradologhe, assistenti stradali… Sicuramente ti aiuteranno a capire, a fermarti quando vedi il rosso. »

G: « Va bene. Ciao, grazie eh. »

A: « Ciao bello! Fai il bravo eh, mi raccomando! »

– Ai « servizi stradali » – 

S: operatrice dei servizi stradali

G: Guido (il conducente)

S: « Buongiorno, io sono Laura Bianchi, stradologa, e lei è Roberta Italia, assistente stradale. Lei è Guido, vero? »

G: « Sì. »

S: « Allora, ciao Guido. Senti, ci hanno segnalato la tua situazione i carabinieri. Come mai questo problema secondo te? Perché non riesci a fermarti col rosso? »

G: « Non so spiegarmelo, io lo so che devo fermarmi ma poi sono in ritardo e vado. E’ più forte di me. »

S: « Ma pensi alle persone che ci vanno di mezzo? Hai anche investito una vecchietta. »

G: « Va beh…. Investito… Ancora con questa storia… L’ho presa dentro, è caduta, l’hanno portata al pronto soccorso. Non l’ho mica ammazzata. »

S: « Senti, ma ti sei mai fatto qualche domanda a riguardo? Perché questo problema? Ti è mai capitato da piccolo di essere investito da un’auto? »

G: « No, abitavo in campagna, passavano poche auto e non esistevano semafori lì. »

S: « Ah, allora può esserci una componente culturale in questo non fermarti al semaforo. Sei d’accordo? »

G: « Sì, certo. In campagna non ero abituato a vedere semafori. »

S: « Ma a te non è mai capitato qualcosa di brutto con le automobili? »

G: « No… ah, una volta mi ha investito una moto, ora ricordo. Avrò avuto 6 anni, stavo giocando giocando a pallone con degli amici… »

S: « Allora lavoreremo anche su questo. Se tu vieni regolarmente da noi segnaleremo questo tuo impegno al magistrato. Però, mi raccomando, cerca di fare il bravo e fermarti al rosso intanto. Parti da casa un po’ prima per andare al lavoro e quando sei al semaforo conta fino a dieci e pensa alle nostre parole. »

G: « Grazie Laura di aiutarmi. Grazie… non mi ricordo il tuo nome… »

S: « Roberta, io sono l’assistente stradale: la prossima volta avrai un incontro solo con me e faremo il punto della situazione riguardo alle tue infrazioni segnalateci: cosa ti ha spinto in quel momento a compierle, come hanno reagito le persone coinvolte. Ti lascio un appuntamento. »

G: « Va bene. »

S: « Mi raccomando Guido, eh… »

G: « Sì, sì, faccio il bravo. »

* Mentre ho scritto il racconto ho pensato in particolare alla violenza di genere intrafamigliare (maltrattamenti, minacce, stalking).

Resilienzainesilio

« Potrebbe essere tua mamma » verso POTREBBE ESSERE (ed è) UN ESSERE UMANO

« Potrebbe essere tua madre » o « tua sorella », « tua figlia », ecc…

Perché in caso di violenza di genere, maltrattamenti, abusi, come di ricorso alla prostituzione (magari minorile) ci si rivolge spesso in questo modo agli uomini che ne sono coinvolti? Come mai questa necessità?

C’è una reale fatica nel « personalizzare » la vittima: la donna, ragazza, persino bambina è vista come OGGETTO  e NON come PERSONA, come ESSERE UMANO.

Un lungo lavoro di spersonalizzazione messo in atto dalla società tutta tramite l’attribuzione di ruoli di genere ben definiti e distinti.

Fin dalle favole infantili ci raccontano la persona di genere femminile come debole e bisognosa di aiuto maschile, in pericolo e/o da salvare, conquistare, far divenire « propria ». Lei in questa fusione troverà il massimo della realizzazione (spesso annullando se stessa e tutto ciò che prima era), la pace, la completezza, la sistemazione e la soddisfazione a vita. L’antitesi femminile è « la strega »: sola e in quanto tale evidentemente insoddisfatta, con capacità infinite e poteri magici che però userà in maniera malevola.

L’educazione insegna alle bambine e alle ragazze la comprensione dell’altro. AltrO: prima di tutto comprensione del « maschio », di qualsiasi età, visto come bisognoso a vita di appoggio e aiuto, di pazienti cure… il tutto necessario per non essere oggetto di violenza da parte del genere maschile, che vi sarebbe naturalmente predisposto se non dovutamente e devotamente tenuto a bada. Da qui l’idea che se si è donne « capaci » di essere tali non si può essere oggetto di violenza maschile. Emblematica la storia di Sherazade, eroina de Le mille ed una notte: per placare la furia misogina e omicida del re di Persia, che ogni notte sposava « una vergine » per ucciderla al mattino seguente, si propone come sua sposa e ogni notte si dedica con infinita devozione all’uomo raccontandogli favolose storie. Il re di Persia « premierà » poi la devozione di Sherazade e dopo molte notti, « mille ed una » appunto, deciderà di tenerla accanto a sé per sempre. Bel guadagno per Sherazade! Grazie alla sua comprensione, pazienza e capacità di empatia condannata a vita a vivere con un criminale femminicida! (*) Non è che queste qualità siano negative, intendiamoci, è il senso unico che porta al totale annullamento di una parte a servizio dell’altra che lo è!

I mass media presentano la donna che si deve adeguare ad un modello di bellezza, di taglia, di cura dell’ aspetto fisico. L’ aspetto fisico stesso diventa così il fattore da criticare per abbattere le donne che raggiungono i media per qualità e posizioni diverse, di solito occupate dal genere maschile: in politica, nel mondo scientifico ed anche dello spettacolo. Alcuni esempi eclatanti: il vestiario delle ministre passato in rassegna, l’astronauta Samantha Cristoforetti che viene criticata per il suo taglio di capelli ed il suo aspetto fisico, la cancelliera Merkel che viene attaccata per la sua taglia e la sua presunta mancanza di gusto nel vestire (così come per la presunta freddezza personale e mancanza di empatia, vedi punto precedente, si direbbe la stessa cosa se fosse un uomo?). Negli ultimi giorni è stato eclatante il caso della cantante Arisa, insultata con una serie di commenti sessisti della peggior specie sul social network perché ha postato alcune foto del suo taglio di capelli molto corto.

La pubblicità rappresenta la donna, spesso svestita, accanto all’oggetto da vendere, qualsiasi oggetto sia, facendone un parallelismo. L’alternativa è la massaia sui fornelli o sull’asse da stiro per vendere, in questo caso alla donna, la passata di pomodoro o il ferro a vapore all’ultimo grido.

Continua così la rappresentazione binaria: donna devota (al proprio uomo ed alle faccende domestiche) o donna non-persona.

L ‘industria del sesso presenta il genere femminile a servizio di quello maschile per la soddisfazione del piacere. Ancora la rappresentazione, come nella pubblicità, della donna come « pezzo di carne ».

Per fermare le diseguaglianze e la  violenza di genere occorre abbattere gli stereotipi che fondano la nostra società patriarcale in tutti i nostri aspetti della vita e ricostruire l’idea della donna quale essa, per natura, è:

UN ESSERE UMANO!

rispetto mamma ecc

Immagine da Mujeres sin descafeinar.

« Distruggiamo l’idea che gli uomini debbano rispettare le donne perché loro figlie, madri o sorelle.

Rinforziamo l’idea che gli uomini devono rispettare le donne perché sono persone. »

Resilienzainesilio

(*nota: dalla critica alla figura di Sherazade il titolo dell’opera della giornalista e poetessa libanese Joumana Haddad « Ho ucciso Sherazade », 2010, un’analisi sul machismo nel mondo arabo ed in occidente e sulle loro contaminazioni.)

Stop al femminicidio

Quando comincia la violenza contro le donne? (immagine di una bambina)

Se non si ferma per tempo…

molte donne possono essere assassinate per il fatto di essere donne

e i loro assassini restare impuniti.

Perché non ci sono adeguate indagini:

la giustizia è assente,

giustifica e tace.

Vite stroncate, famiglie orfane.

QUANDO LA SOCIETA’ SI UNISCE,

QUANDO LA SOCIETA’ PRETENDE GIUSTIZIA,

QUANDO LO STATO AGISCE,

PREVIENE ED ESERCITA GIUSTIZIA,

QUANDO SI GARANTISCONO I DIRITTI DELLE DONNE,

LE DONNE POTRANNO VIVERE SENZA VIOLENZA E COSTRUIRE IL PROPRIO FUTURO.

STOP AL FEMMINICIDIO

In memoria delle loro vite non lasciamo impuniti i loro assassini.

Spot contro il femminicidio prodotto dalla Campagna Nazionale in Honduras contro il femminicidio

Come un uomo diviene violento e cosa succede nella sua mente? 

Una traduzione da “Why does he do that? Inside the Minds of Angry and Controlling Men”, di Lundy Bancroft.

COME UN BAMBINO IMPARA LA VIOLENZA

I bambini iniziano ad assorbire le regole e le tradizioni della propria cultura prestissimo – di sicuro entro i tre anni, probabilmente anche prima. Questo processo di apprendimento continua durante tutta l’infanzia e l’adolescenza. La famiglia in cui i bambini crescono è di solito l’influenza più forte, almeno per i primi anni di vita, ma è solo una fonte fra le altre. Il modo proprio e improprio di comportarsi, la percezione morale di ciò che è giusto o sbagliato, le convinzioni circa i ruoli di genere sono loro trasmessi dalla televisione, dai video, dalle canzoni famose, dai libri per bambini, dagli scherzi… I bambini osservano i comportamenti di amici e parenti, inclusi gli altri adulti cui sono vicini. Osservano per capire quali comportamenti sono premiati – quelli che rendono le persone popolari, ad esempio – e quelli che, al contrario, vengono condannati. A quattro o cinque anni iniziano ad esprimere curiosità per la legge e la polizia, che giocano un ruolo importante nel formare il senso morale. Durante l’adolescenza, i giovani hanno accesso ad una quantità sempre maggiore di messaggi, con sempre meno filtri imposti dagli adulti, mentre sono sempre di più soggetti alla crescente influenza dei loro pari. Anche dopo aver raggiunto l’età adulta, le persone continuano a ricevere messaggi dalla società che li circonda e ad aggiustare i propri valori e le proprie convinzioni in base a ciò che è considerato socialmente accettabile.

Continua a leggere l’interessantissima analisi sul blog Il Ricciocorno 

Stupro di gruppo senza colpevole tranne uno: la vittima.

Sette anni fa una giovane donna di 23 anni è uscita da una festa e nelle vicinanze della Fortezza da Basso, a Firenze, in un auto parcheggiata subisce uno stupro da 6 uomini tra i 20 e i 25 anni. La ragazza denuncia il fatto ed inizia tutta la solita macchinosa procedura della giustizia italiana in questi casi: un processo penale, che in quanto tale dura anni e che coinvolge le vittime come i carnefici.

Pochi giorni fa, il 17 luglio 2015, la sentenza della corte d’appello assolve tutti i sei uomini coinvolti.

Ma come si svolge un processo penale? Perché si arriva a queste sentenze nei casi di stupro?

Come abbiamo visto su questo sito inerentemente ad altri casi e ad altri approfondimenti tutto sta nelle argomentazioni prese in considerazione da magistrati e giudici durante i processi. Esse spesso, per non dire quasi sempre, si sposano perfettamente alla mentalità sessista diffusa nel nostro Paese, per cui gli operatori della giustizia (magistrati, giudici, consulenti chiamati in causa) assicurano l’applicazione e la perpetuazione di pregiudizi comuni. Nei casi di violenza di genere, così, i ruoli si ribaltano.

Le domande diventano non « Come è successo? Quando? Dove? Chi è stato? Quale pena merita il/i criminale/i? »

ma

« Chi è la vittima? Che vita conduce? E’ normale o ha qualche atteggiamento/interesse strano? (Vedi filosofie orientali – Laura Roveri- o esperienze omosessuali – come in questo caso.) Ha davvero subito? E se non fosse così? E se è successo ed è innegabile che é successo: se il violento avesse le sue ragioni? Perché la vittima non si è sottratta? Perché non si è ribellata? E se si è ribellata… perché prendere il rischio di rivoltarsi davanti ad uno o più uomini violenti? Allora se l’è cercata! (In entrambi i casi precedenti.)

Sospetto, ricerca morbosa di particolari a sfavore della vittima, diffamazione. Perché in Italia una donna che denuncia di aver subito violenza da parte di un uomo ne subirà un’altra meno evidente, più silenziosa e insidiosa, per un lungo periodo dalle istituzioni. Esse vivisezioneranno lei per trovare scusanti al suo carnefice. Questo abbiamo visto che succede alle vittime quando in vita ma anche dopo, nel caso di femminicidi, quando verranno accettate argomentazioni a difesa degli assassini che si rifanno alle condotte di lei: troppo indipendente o dipendente da lui, poco comprensiva o troppo, non aveva concesso il rapporto sessuale o l’aveva concesso quindi « ci stava », ecc…

A volte la donna subisce prima la violenza maschile poi quella istituzionale, come in questo caso. Una violenza atroce durata una notte ed una seguente durata anni. Violenze i cui effetti, per entrambe, si perpetueranno per tutta la vita.

Altre volte dovrà avere a che fare con entrambe contemporaneamente: vedi violenza coniugale e stalking. In questi casi, infatti, la vittima dopo aver denunciato dovrà continuare a subire violenza e nello stesso tempo dimostrare alle istituzioni di subirla, questo insieme al dover persino giustificare se stessa per il fatto di esserne sottoposta, soprattutto quando sono coinvolti minori e servizi sociali. Come se, senza un intervento esterno, richiesto dalla donna che denuncia (che in caso contrario non denuncerebbe), una semplice formula magica pronunciata dalla donna stessa potesse far smettere al violento di essere violento. Puf!

Quanta forza deve avere una vittima di violenza per affrontare tutto questo?

La ragazza sopravvissuta allo stupro di Firenze scrive una lettera in cui dichiara di avere tuttora, a distanza di sette anni, attacchi di panico, flashback e incubi continui. Racconta di non riuscire più a vivere nella sua città poiché ossessionata dai brutti ricordi e dalla paura del giudizio delle persone.

Racconta di come sia stata analizzata al microscopio la sua vita a causa della sua denuncia e si chiede se l’unico modo per essere considerata vittima sarebbe stato passare l’adolescenza e la propria vita chiusa in casa con la gonna alle caviglie e lo sguardo basso. E’ una provocazione, ovviamente: sappiamo molto bene che se così fosse stato sarebbe stata considerata una sprovveduta, asociale, ingenua e per questo una persona che non avrebbe gestito a  dovere la situazione a causa di una sua incapacità ed ineguatezza. La colpa si sarebbe rovesciata su di lei, anche in questo caso.

– Per chi volesse far sentire la sua voce contro questa sentenza può firmare una petizione lanciata on line.

(Resilienzainesilio)

blame the system

Non sono malati. Sono delinquenti.

delinquenti

– I molestatori, i violenti, gli stupratori e gli assassini di donne non sono malati. Sono delinquenti. Denunciali! –

Si ha tendenza, nella società, a vedere il violento verso la propria consorte o ex (ma spesso anche verso una donna sconosciuta) come “malato”, “disturbato”, “portatore di handicap”. Un uomo in difficoltà, da accogliere e da comprendere.

Ma fermiamoci un attimo ad analizzare il comportamento di questi individui. Quando si rivela appieno? Spesso dopo il matrimonio, ancor più spesso dopo la gravidanza e/o la nascita di un figlio.

Perché la gravidanza? Ci sono sicuramente diversi fattori: una riproposta di un proprio vissuto familiare basato di rapporti di forza e disegualitario, senso di frustrazione per non essere più al centro dell’attenzione della donna che prima si dedicava appieno al suo amato (da esso evidentemente non ricambiata ma esclusivamente utilizzata a suo uso e consumo), una sensazione patriarcale di potere acquisito e di “possesso” degli altri componenti della famiglia in quanto « maschio adulto ».

Ma allora: si può parlare di malattia?

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